Allora, cari lettori del mio blog, eccoci qui a inaugurare una nuova sezione.Oggi ho avuto la liberatoria ufficiale da parte del mio editore, Salvatore Giordano di Nulla Die, che mi permette, senza scopo di lucro, di pubblicare sul blog i miei racconti.
Inizio con il primo, in senso assoluto. Dopo aver terminato il mio primo romanzo, La Catena, ho incontrato il Writer’s Dream, sito di aspiranti scrittori che mi ha salvata dall’ EAP e mi ha condotta per mani nei tentacolari vicoli che conducono alla pubblicazione. Allora, però, il mio romanzo era ancora in cerca di CE, così sentivo il bisogno di un pubblico vero, che non fossero gli amici e i parenti. Un giudizio esterno su ciò che scrivevo. Ed è nato Sequestro di Emozioni. E’ un racconto andato così bene su WD che lo hanno messo in Fairy Tales, i migliori racconti nel mese di novembre 2010. Inutile dire la gioia che ho provato, un incoraggiamento senza pari a proseguire nella scrittura. Nello stesso periodo, al corso di Scrittura Creativa all’Upter, lo stesso racconto veniva “bollato” dal mio Prof. come “ben scritto, ma non si tratta un racconto”. Gli antipodi dei giudizio. Attendo, con curiosità, il vostro.
SEQUESTRO DI EMOZIONI
Rosaria era sdraiata sul letto con lo sguardo rivolto verso la porta. Sembrava osservare ogni persona che entrava e usciva dalla stanza dell’ospedale, ma in realtà fissava le poche ore restanti della sua vita dispiegarsi di fronte a lei.
Camera 105, letto 14, secondo corridoio a sinistra, reparto medicina generale. Salendo con l’ascensore al terzo piano dell’immenso padiglione del Policlinico Cattolico Universitario, mi domandavo con insistenza per quale ragione un malato terminale di cancro fosse ricoverato al reparto di medicina generale. Consapevole che si trattava di una situazione d’emergenza, un letto tampone rimediato attraverso questue e raccomandazioni, lo trovavo comunque indegno e inopportuno. Tuttavia, mentre le porte di alluminio grigio si aprivano di fronte a me, lasciando intravedere il lungo corridoio di linoleum inondato dalla luce di luglio, una risposta in testa già l’avevo. La medicina generale è un parcheggio simile ad un robivecchi: i medici ammassano nelle stanze del reparto tutto quello che non riescono a classificare, guarire o rimandare a casa. Una mescolanza di età e razze, differenti livelli di dolore e stato sociale uniti da un unico comune denominatore: il pigiama e le ciabatte. All’occorrenza in medicina generale vengono accorpati anche uomini e donne: da una stanza all’altra le infermiere passano dal pappagallo alla padella, mal celando il disagio di occuparsi contemporaneamente di vecchi ottuagenari e giovanette procaci.
L’odore della stanza 105 era denso di umori e dolore. Fortunatamente si trattava di una stanza a due letti: la sofferenza degli astanti avrebbe saturato e avvelenato qualsiasi ambiente. Non a caso l’occupante del letto numero 15 era assente: dopo aver raccolto in una sgualcita busta di plastica portamonete, drenaggio e cellulare, i suoi beni più preziosi, era uscita di scena lasciando campo libero all’attesa dell’inevitabile. Di certo non voleva trovarsi in quella stanza quando l’atto finale si sarebbe consumato, di fronte a decine di occhi lucidi e attoniti.
Rosaria indossava un pigiama color crema con stampe di rosa, senza maniche. La bandana che da mesi le nascondeva goffamente la calvizie scivolava di lato a ogni impercettibile movimento. Come un automa sua figlia la ravviava, cercando di presentare agli occhi di noi visitatori la madre senza sbavature. Inutilmente.
Al mio ingresso rimasi colpita dal colore giallognolo della pelle di Rosaria. Non la vedevo da poco più di due mesi e il suo incarnato era molto peggiorato da quella volta. L’immagine dell’ultima cena trascorsa insieme si sovrapponeva prepotentemente a quella dell’esile corpicino disteso nel letto numero 14. Avevamo cenato insieme nel nostro ristorante preferito, Rosaria, Saverio ed io. Prima della mia vedovanza le sedie occupate erano quattro, ma non v’è stato un solo incontro nel quale la presenza di mio marito non si fosse sentita forte, nonostante il silenzio di quella sedia vuota. Quell’ultima sera di primavera inoltrata Rosaria non voleva saperne di abbandonare il ristorante: il conto era saldato da quasi un’ora, l’aria rinfrescava e Saverio andava ripetendo gli impegni dell’indomani con fare preoccupato.
“Restiamo ancora un altro po’. Stiamo insieme così di rado. Ancora un minuto”
Era quasi supplichevole. Non lasciava la mano di Saverio, e con lievi carezze sul braccio lo invitava a restare seduto, come se quel tavolo rappresentasse la zattera della nostra amicizia. Lasciarlo andare significava avventurarsi nel mare aperto, e accettare il rischio di annegare. Quella sera non temevo di non rivederla: Rosaria aveva sviluppato una sorta di ipocondria e spesso cercavo sdrammatizzare i mille acciacchi dei quali ci rendeva partecipi con dovizia di particolari. E’ vero, ultimamente ogni controllo ne aveva richiesto un altro e un altro ancora, senza che le diagnosi fossero mai incoraggianti. Tuttavia il mio innato ottimismo mi faceva credere che avrebbe superato anche l’ultimo ciclo di chemio e avrei potuto continuare a prenderla in giro come se le sue fossero paure immotivate. Quanto il mio atteggiamento fosse dettato dal suo modo leggero di raccontare le sofferenze o dal mio rifiuto dell’inevitabile, non saprei dirlo. Ma di quella cena ricordo la fame di conversazione che aveva Rosaria. Era come se insieme alle pietanze volesse mangiare il tempo che trascorrevamo insieme, e più quello aumentava più lei ne aveva appetito. Stava facendo indigestione di noi. Se fossi stata meno superficiale, avrei dovuto approfittare anch’io di quel banchetto. Ma l’età e l’esperienza non sempre rendono più saggi. Nel mio caso, rendono più codardi.
L’imperioso sole di luglio, invadente dentro la corsia e nelle stanze, rendeva incongruo l’orario del pasto. In ospedale si cena alle sei. Sul vassoio di plastica bianca troneggiava l’immancabile pastina che Rosaria non aveva neanche sfiorato. In disparte, su un piattino più piccolo, ancora avvolta per metà dalla carta bianca e rossa, sostava una porzione di crescenza. Saverio amorevolmente stava cercando di imboccare la moglie, la invitava a mangiare. Questa donna era ricoverata con il fegato ostruito: le metastasi avevano invaso e divorato quasi tutto. Se non fossero riusciti a intervenire, liberando le vie biliari, non ci sarebbe stato più nulla da fare. E nessun medico voleva assumersi questa responsabilità. E lui le dava da mangiare del formaggio. Ma dico io: il formaggio a chi ha il fegato intasato? C’è bisogno di un medico per comprendere il paradosso del menu previsto per il letto 14? La verità è che lei si trovava in medicina generale: a nessuno interessa cosa mangiano i pazienti di quel reparto. Sono come passeggeri su un autobus: transitano da una fermata all’altra, nessuno trascorrerà la notte nel deposito. Il rancio è un problema del tutto secondario: mangiare, ringraziare che lo forniscano e via senza arrecare troppo disturbo.
Quello che mi lasciava davvero senza parole era la dolcezza e l’insistenza con la quale Saverio voleva convincere la moglie a mangiare bocconi di quel piccolo veleno. Poco importava quale cibo trasbordasse dal cucchiaio. Tra poche ore il cuore avrebbe smesso di pompare sangue e ossigeno, tutte le funzioni vitali si sarebbero azzerate. Un pieno di benzina oppure di miele non fa differenza per una macchina diretta allo sfascio. Eppure sembrava che me ne accorgessi solo io. Mi stampai in faccia un sorriso di circostanza e attesi il mio turno per sedermi nell’unica sedia disponibile vicino a Rosaria. Saverio si voltò, la testa incassata nelle spalle. I suoi occhi erano stanchi e cerchiati di nero, ma in essi non brillava un briciolo di consapevolezza. Sembra davvero sconsolato mentre rinunciava a far mangiare a Rosaria l’inutile crescenza, come se riponesse in essa poteri taumaturgici sconosciuti al mondo. Mi rivolse un sorriso a mezza bocca e mi lasciò posto nella sedia accanto alla mia amica.
No grazie, avrei voluto rispondere. Non voglio prendermi nessuno dei minuti che spettano a te per dirle addio. E soprattutto non sono pronta a salutare un altro pezzo del mio mondo che se ne va. Sono venuta fino a qui perché lo dovevo a voi due, alla vostra amicizia, lo dovevo a me stessa e al nostro passato. Ma la Morte continua a mettermi a disagio e non ho desiderio di incontrarla di nuovo.
La sedia vuota mi rispose che non era possibile compiere un atto di codardia. Pronunciò un imperativo al quale non potei sottrarmi.
Mi sedetti sul bordo, in allerta e pronta a scattare, come se in pericolo di vita fossi io. Mi costrinsi a guardare gli occhi di Rosaria da vicino, tentando di non cedere alla nausea causata dall’odore di disinfettante. I suoi occhi erano spalancati, questa volta non avevano fame di conversazione ma di risposte. Tutti intorno recitavano la loro parte. Mettevano in scena il normale orario di visita in un reparto di medicina generale. Impersonavano il parente affrettato, il marito premuroso, la figlia giudiziosa. Nessuno di loro aveva gli occhi lucidi di chi sta per perdere una sorella, una moglie, una madre. La risposta che Rosaria cercava di scovare nei miei occhi era chiara come il sole di luglio che importunava la nostra veglia. Lei voleva sapere se stava morendo oppure no. Il suo corpo non si muoveva più da solo, i suoi capelli erano stati sostituiti da una bandana sudaticcia, le sue labbra erano secche di un’arsura che non si placava. Eppure questi segni non le bastavano, non le erano sufficienti per stringere forte a se i cari e dire loro addio. Mi guardava, e mi scavava dentro. Sperai di essere brava a fingere. Fu lei a venirmi in soccorso,anticipandomi.
“Come sta la bambina?” riferendosi a mia nipote.
“Bene, grazie. Non l’ho portata sai, con questo caldo”. Come se in condizioni meteorologiche adeguate le gite all’ospedale fossero la passione dei bambini di cinque anni.
“Non fa niente, salutamela”. Parlava come se ci fossimo incontrate per caso al mercato, entrambe cariche di borse e pacchetti al punto di non avere il tempo per scambiare più di una parola prima di sentire le braccia pesanti.
Mi alzai. La mia parte era terminata. Prima di lasciare il posto a qualcun altro, la figlia di Rosaria mi chiese di aiutarla a sistemare la madre sui cuscini. La mia corpulenza fu utile in almeno quella circostanza. Contammo fino a tre, le mani sotto le ascelle prive di muscolatura affondavano nelle carni come fossero burro. In meno di un secondo la bambola di pezza che un tempo era la ciarliera Rosaria fu di nuovo sistemata a beneficio del prossimo avventore.
Saverio mi indicò il dispenser per il sapone disinfettante appeso alla parete. Come se avessi impellente desiderio di disfarmi dell’ultimo tocco dato alla mia amica. Col cappo feci cenno di no.
Mi mancherai, Ti voglio bene, Con te se ne va una parte della mia vita. Questo avrei voluto dire a Rosaria. Avrei voluto salutarla, poterle dire addio perché questa è l’unica vera fortuna che offre quel maledetto male chiamato cancro. Senti la signora con la falce arrivare, e in cambio degli immensi dolori che infligge alle carni ella ti permette di salutare le persone che ami. Loro non me lo hanno permesso, e di Rosaria mi rimase solo l’odore di disinfettante e il movimento fugace di deporla sul materasso con la delicatezza dell’intimità.
Ripercorrendo a ritroso la strada del commiato, dalla stanza 105 al parcheggio della mia auto, ripresi a respirare con regolarità. Almeno, con la frequenza che il caldo infernale concedeva. Non si muore a luglio: il sudore e il sole fanno sì che tu non sia mai vestita in maniera adeguata per una visita all’ospedale o per un funerale. Anche privi di colori sgargianti gli abiti estivi non si addicono a una messa funebre: ricordano il mare, le risate, la vita.
Quando Rosaria è morta, la spostarono in una camera mortuaria aperta per due sole ore prima della chiusura della bara. Il regolamento del Policlinico Cattolico Universitario non prevedeva alcuna veglia nelle ore notturne, nessun andirivieni di persone afflitte per recare fiori, lacrime per la defunta e parole di conforto per i parenti.
Il ricovero in un reparto di transito e la camera ardente sprangata. Dove vanno a finire le emozioni, mascherate prima e negate poi? Della morte di Rosaria rimase solo un’urna di ceneri che rapidamente vennero sparse nel suo adorato mare. Neanche una lapide davanti alla quale piangerla in solitudine.
Che si sia trattato di una strategia per gabbare la Morte?